Donato di Neri, uno scrittore dell’epoca, autore della “Cronaca senese”, nel riferire la situazione sociale e politica dell’anno 1370, comincia il racconto degli eventi, conosciuti come “La rivolta di Barbicone”, con queste parole:
“La Compagnia del Bruco si scuperse in Siena a dì 26 agosto, ed era nella Contrada d’Uvile, ed erano congiurati circa 300 e più, ed erane capo Domenico di Lano ligrittiere, e dicevano che volevano pace e divizia e andaranno per lo grano a chi n’arà, e chi n’arà ne lo darà”

Il cronista, ci fa una presentazione a dir poco contraddittoria, perché sottolinea le caratteristiche minacciose del movimento (si scuperse, erano congiurati) e ne descrive invece gli intenti pacifici come una tranquilla associazione umanitaria (volevano pace e divizia).
In effetti nessuna delle due interpretazioni definisce correttamente la realtà, perché si trattava de “li lavorenti e scardazieri dell’Arte della Lana” che erano entrati in conflitto con i propri datori di lavoro e rivolgendosi al governo della Città chiedevano che le decisioni in materia salariale venissero prese dal potere pubblico e non dal Consiglio della Corporazione: “sicondo l’ordine del Comuno di Siena e non per quello della Arte”.

Fino dal dicembre del 1368 c’era a Siena il governo dei “Quindici difensori del Popolo e del Comune” definito il governo dei Riformatori. Era una coalizione in cui, erano rappresentate, con peso differenziato, le classi sociali della Repubblica: 8 “riformatori”, rappresentanti del popolo minuto ovvero del popolo del maggior numero; 4 “dei dodici”, rappresentanti dei medi popolari ovvero della media borghesia; 3 “dei nove” rappresentanti dei ricchi popolari ovvero delle facoltose famiglie senesi.

La Compagnia del Bruco era costituita su base territoriale per cui ne facevano parte tutti gli abitanti del rione, nel quale prevaleva di gran lunga il numero degli assoggettati alla giurisdizione dell’Arte della Lana, ma non mancavano gli addetti ad altri mestieri e neanche gli appartenenti ad altre classi sociali.. Ciò che distingue la Compagnia del Bruco quindi, non è tanto l’affinità di mestiere quanto il luogo dove gli appartenenti si riuniscono.

Domenico di Lano, del quale poi non sapremo più niente, era un ligrittiere, cioè rivenditore di panni vecchi ed era anche un personaggio sicuramente di rilievo nell’ambito cittadino, perché nel 1368 era Gonfaloniere del Terzo di Camollia e nel bimestre maggio – giugno del 1370 lo troviamo nel governo dei riformatori con la qualifica di Capitano del Popolo e Gonfaloniere di Giustizia.

I motivi del forte e diffuso malcontento, oltre che derivare dallo sfruttamento continuo degli appartenenti all’infima plebe, come erano definiti i salariati, era dovuto anche a fatti contingenti: a seguito dell’epidemia del 1363, che aveva decimato le popolazioni del contado, era stato chiuso il porto di Talamone e per giunta una forte siccità aveva ridotto ai minimi termini i raccolti del grano e degli altri prodotti agricoli, per cui i prezzi erano saliti alle stelle.

È in questo contesto che la Compagnia del Bruco organizzò una pubblica manifestazione per chiedere alcune revisioni normative che, modificando lo Statuto dell’Arte della Lana, avrebbero comportato anche un miglioramento salariale.
Il 13 luglio del 1371 (in qualche testo è detto: alcuni giorni prima del 14 luglio) un folto gruppo di abitanti delle Coste d’Ovile si presentò davanti al Palazzo per sostenere le sue giuste rivendicazioni, sperando di essere ascoltato dai Signori del governo.
I tre loro rappresentanti, definiti “Capi della Compagnia del Bruco”, che erano Cecco delle Fornaci, Giovanni di Monna Tessa e Francesco d’Agnolo detto Barbicone, non solo non furono ascoltati, ma vennero arrestati e incarcerati nel Palazzo del Senatore e siccome, sotto tortura, finirono per ammettere l’esistenza di una congiura contro i vari gerarchi dell’Arte della Lana, vennero condannati alla pena di morte.

La rivolta vera e propria iniziò lunedì 14 luglio 1371, quando il Palazzo del Senatore fu preso d’assalto da migliaia di persone e molti della guardia armata rimasero feriti od uccisi. Il Capitano del Popolo, Francino di Maestro Naddo, ordinò al Senatore di liberare i tre capi della Compagnia del Bruco perché “la città era tutta in arme”.
In effetti la maggior parte degli operai senesi, anche di altre corporazioni, ed anche molti dei piccoli artigiani, si erano uniti al popolo del Bruco.
La liberazione dei tre leader, già condannati a morte, invece di riportare la calma, dette ancor più vigore agli insorti, forse perché ora alla loro testa c’era Barbicone o comunque perché avevano acquisito la consapevolezza della loro forza: andaro con gran rumore al Palazzo de Signori gridando “sieno tratti e’ dodici e’ nove”.

Si può ragionevolmente affermare che a questo punto la vertenza dei salariati dell’Arte della Lana, intrapresa nei confronti dei propri datori di lavoro, si trasformò in una vera e propria lotta di classe. Si consideri che contro il popolo si gettarono nella mischia, “preser l’arme per quietar quel tumulto della plebe”, anche le altre famiglie dei Grandi di Siena: Tolomei, Malavolti, Montanini, Rinaldini, ecc. e proprio Carlo di Messer Francesco Malavolti ci perse la vita.

Le file dei rivoltosi quindi, si rinforzavano con sempre più ampi strati di popolo minuto, artigiani e commercianti, tanto che Neri di Donato parla di Compagnia del Popolo che unita a quella del Bruco riuscì nel successivo tentativo, la sera del 15 luglio, ad entrare nel Palazzo del Governo ed a cacciare i rappresentanti dei nove e dei dodici: “… la Compagnia del populo, con quella del Bruco per forza trasse di Palazzo i quattro Signori che risiedevano dell’ordin de’ Dodici e tre dell’ordin de’ Nove”.
Essi erano: Felice di Casucchio, Cristofano di Duccio d’Arduino, Petrone Caterino, Tone d’Ugo, Niccolò di Milla, Ciampolo di Vannoccio e Bartolo di Francesco Buonaiuta.
Non sappiamo in che modo questi sette lasciarono il Palazzo. Probabilmente scesero per le scale, ma non si può certo escludere che qualcuno sia arrivato in Piazza direttamente dalle trifore, visto che il cronista riferisce che furono tolti “per forza”.

Al loro posto nel nuovo governo, che si chiamò “Governo dei quindici Signori Riformatori”, furono inseriti sette uomini del popolo: Cecco di Luca, Landino di Guccio, Maestro Francesco di Maestro Ambrogio, Berna di Meo di Ristoro, Nanni del Gioia, Laco di Cato e Agnolo di Francesco.
Quest’ultimo nome fa pensare a Barbicone, dato che non è affatto improbabile che il cronista abbia invertito, come spesso accadeva, gli appellativi che distinguevano le persone. Comunque sia fu formato un governo di quindici rappresentanti del popolo del maggior numero che, probabilmente, erano più abili a menare le mani che a gestire il potere specie in un momento non certo tranquillo, considerando anche che le altre classi sociali, con mezzi economici, uomini e strutture notevoli, non avrebbero accettato passivamente l’esclusione dal potere cittadino.

Infatti, i Salimbeni in alleanza con i medi popolari (i dodici) organizzarono un’azione di forza, facendo arrivare i propri uomini armati dal contado, per rovesciare il nuovo governo, per “fare a pezzi la Compagnia del Bruco” ed anche con lo scopo di distruggere, una volta per tutte, le consorterie avversarie: a cominciare dai Tolomei.
I Salimbeni in verità, miravano ad imporsi come Signori della Città, facendo di Siena una Signoria, così come era riuscito ai Visconti di Milano e come riuscirà poi ai Medici di Firenze. Era perciò necessario cacciare il nuovo governo, togliere al popolo ogni velleità di potere ed annientare le altre potenti famiglie che contrastavano questo disegno.

La notte del 29 luglio arrivarono nei pressi della Città le truppe feudali dei Salimbeni: 1500 fanti e 40 cavalieri con a capo Nuccio da Bigozo e Pongatello Salimbeni, un drappello di cavalieri con a capo Cione di Sandro, 400 fanti con a capo Messer Azzo da Bigozo e 100 di Neri del Boneca: oltre 2000 uomini armati.
Il Capitano del Popolo doveva aprire loro la porta, ma venne sorpreso con le chiavi in mano e fu rinchiuso in una stanza del Palazzo.
La mattina del 30 luglio, secondo il piano preordinato, i Gonfalonieri dei Terzi, anche senza i rinforzi dal contado, bloccarono gli accessi alla Piazza. I tre, ciascuno con una squadra di 600 armati, si disposero in via di Città, nel Porrione ed alla Croce del Travaglio. Poi divisi in due squadre si diressero una al Palazzo e l’altra alle abitazioni dei componenti la Compagnia del Bruco ad Ovile. Mentre a Palazzo i Signori del governo si difesero egregiamente con la loro guardia civica, nelle Coste d’Ovile fu attuata una vera e propria carneficina.

Donato di Neri: “… molti erano andati a la Compagnia del Bruco, come era ordinato, e combatteano co’ lor spade a Uvile, e rupperli e cacciarli per quelle coste co’ le lance e co’ le balestre e co’ le spade che non tenero cinga, e chi fugia di qua e chi di là, e chi s’agguatava, e chi si gittava per le mura. Le done loro stridendo scapegliate co’ le culle in capo co’ fanciulli in braccio, e per mano co’ le balle, paurose fugendo che fu mai simile piatà che non si potrebe stimare chi veduto non l’avesse. E li dodici in persona rubaro e tagliaro le tele di su’ telai e affocaro otto case …”.

Intanto, in vari punti della Città, si stavano organizzando gruppi di contrapposizione ai Salimbeni che, com’è detto prima, tendeva a rovesciare il governo ma anche ad annientare diverse famiglie dei ricchi popolari. In pratica si ricompose il fronte delle vittime predestinate. I seguaci dei nove, drappelli ben armati degli Ugurgieri, dei Tolomei, dei Malavolti, si posero di fatto dalla parte della Compagnia del Bruco e sbaragliarono i nemici in ogni parte di Siena.

I Signori quindici del nuovo governo riformatore, iniziarono subito le procedure della giustizia. Cominciarono i primi arresti, le distruzioni dei beni, le condanne (131 popolari medi, 85 del popolo minuto, 12 popolari ricchi e 12 membri della famiglia Salimbeni), le pene pecuniarie e le esecuzioni, alle quali, su richiesta della Compagnia del Bruco, si aggiunse quella del Capitano del Popolo:
“Vestito di scarlatto, la testa adagiata su un panno dello stesso colore, Francino di Naddo, fu decapitato il primo agosto al centro di Piazza del Campo”.

Il 12 agosto fu cambiata la composizione del Governo. Tenuto conto dell’apporto determinante che gli appartenenti al Monte dei nove avevano dato per annullare la recente sommossa dei dodici capeggiati dai Salimbeni, e considerata anche l’importanza economica che avevano nella Città e Stato di Siena, si formò una coalizione di dodici riformatori e tre noveschi. Furono cioè sostituiti tre del popolo minuto con tre dei ricchi popolari.

Dopo questo breve periodo di notorietà e dopo aver dimostrato il loro forte spirito associativo e combattivo, gli abitanti dei Borghi d’Ovile, tornarono alle loro umili attività senza più ripresentarsi alla ribalta negli eventi della storia di Siena. Ma come dice Serena Burgalassi: “non si era spenta la loro animosità e la loro prontezza nel venire alle mani; caratteristica che continuerà a distinguere i brucaioli nelle cacce coi tori sul Campo e durerà inalterata nel popolo della Contrada fino ai nostri giorni”.

A partire dal 1417 fu ristrutturato il Palazzo della Mercanzia alla Croce del Travaglio e fu eretta la loggia, su disegno di Sano di Matteo, come oggi la vediamo. Sui lati interni ci sono due lunghi bancali di marmo, quello di destra fu scolpito da Antonio Federighi nel 1464, e raffigura, sulla spalliera a bassorilievo, cinque figure di eroi. Nella Storia della Nobil Contrada del Bruco di Serena Burgalassi è scritto: “…quelli della Compagnia del Bruco di Ovile si levarono in armi inalberando un’insegna gialla con il Bruco in mezzo; in memoria di ciò nella Loggia degli Offiziali c’è una statua sedente con due teste ai piedi e si crede sia il capo truppa di quella Contrada”.

Germano Trapassi